Storie di terapie

Elettra

Uomini grandi e forti che non sopportano i torti, sanno anche torturare pur se credono di amare. Credono che sia tutto a loro dovuto perché sono andati più su che hanno potuto. Uomini grandi ladri che rubano l’amore senza pensare agli altri, al loro onore, loro nascono da “donne” che odiano perché mettono in pericolo la loro vita da re.

I versi della poesia sopra trascritti, sono di Elettra, la paziente che qui di seguito racconterò. Leggendo queste parole si potrebbe dedurre un funzionamento borderline di personalità in cui appare evidenziata la forclusione paterna, la figura maschile viene espulsa e se nominata viene poi sminuita. Il terzo personaggio che porta ad una genitalizzazione che potrebbe introdurre ad una rappresentazione simbolica non viene riconosciuto, è presente piuttosto la presenza/assenza di una madre e idealizzata e svalutante. Il nome che ho deciso di attribuire alla paziente è Elettra colei che è “innamorata” del “padre” ed è in lotta perenne con un femminile che ama ma allo stesso tempo odia. Lo stesso amore e odio lo sento nei suoi confronti durante i miei colloqui sempre burrascosi e pieni di eccessi.
Nell’incontro con Elettra mi viene subito in mente l’immagine di un fiume in piena, un fiume a cui mancano gli argini, dove si verificano repentinamente alluvioni disastrose. Quelle sponde vengono vissute come “prigioni” eppure sono necessarie affinché l’acqua possa fluire in modo sicuro senza straripare: così, invece di produrre allagamenti, può essere usata in modo creativo e vitale.

La donna ha 59 anni, ricoverata in una Struttura Psichiatrica Residenziale da un anno e sottoposta ad un percorso di riabilitazione, unito a sedute psicoterapeutiche svolte ogni settimana.
All’entrata in struttura ricordo che era seduta, capelli corti, vestita con maglietta e pantaloni, corporatura robusta, mani grandi; mi avvicino subito e penso a come la sua presenza sia così maestosa, lei mi guarda, mi scruta, lo sguardo è intenso. Mi sento come se dovessi rispondere subito a quello sguardo, quasi violentata nelle mie intenzioni a voler invece a tratti distoglierlo. La prima oscillazione di immagini si esplica quando si alza dalla sedia e pone la mano in modo irruente e agitato affermando con voce alta e sfidante “piacere di conoscerla dottoressa”. Il mio controtransfert è quello di provare un’inspiegabile attrazione, penso che desidero prenderla in carico, ascoltare la sua storia, mi metto subito in una posizione di onnipotente salvatrice. Allo stesso tempo mi sento infastidita e desiderosa di mettere dei limiti a quel raccontare la sua vita come se fosse un romanzo turbolento. Ricordo anche la presentazione del medico del Centro di Salute Mentale che descrive la storia della signora inserendo molti dettagli traumatici, come il fatto di essere stata violentata a soli 7 anni e abbandonata dal padre dopo aver trascorso molti anni della sua vita in America, vissuta per un lungo tempo in strada con i suoi amici combattenti, di aver messo al mondo figli mai conosciuti e avuti da diversi compagni. Dentro il mio immaginario si creano diverse fantasie che mi porto dietro anche lungo l’arco dell’intera giornata e le giornate successive. I miei pensieri vengono occupati dall’immagine di quella combattente, penso a quanto possa mascherare la sua fragilità, al far di tutto per affermare il suo pensiero perché per tutta la vita non è mai stata vista ed ora combatte anche distruggendo l’altro per esistere. Penso al primo colloquio e alla sua frase sfidante “lei è proprio sicura che io possa sostenere dei colloqui?”. In quel momento avevo vissuto quella frase come minacciosa, un mettermi alla prova, un tentativo di sabotare il mio pensiero attraverso un’esondazione del processo primario. Mi chiedevo se sarei poi stata in grado di reggere le sue prevedibili svalutazioni. Era molto vivida in me l’idea di fuga pervasa da un’angoscia mortifera di pulsioni aggressive. Questa sensazione di trovarmi su un terreno infuocato l’avevo avvertita anche durante i primi giorni di ricovero quando Elettra messa davanti alle prime regole del reparto aveva subito trasgredito, riempiendo una busta di cioccolata presa alle macchinette per poi mangiarle e violando la regola del non poter introdurre cibo in reparto. Nel rimandarle quel comportamento, con tono fermo, avevo scatenato in lei l’ira funesta che l’aveva portata ad insultarmi. Proprio come nella storia del personaggio greco Elettra, io stessa per lei ero diventata una madre instabile, cattiva uccidendo il padre inconsistente. Il mio intervento era stato quello di restare in silenzio per poi rimandarle successivamente il suo bisogno di creare con me una relazione infuocata. Durante il primo colloquio racconta la sua storia con fare affascinante, coinvolgente e grandioso, traspare la sua ipersensibilità e la sua difficoltà a tener conto del pensiero dell’interlocutore il quale allo stesso tempo vuole impressionare. Esordisce dicendo che il suo problema è la rabbia, di vita da homeless, di abbandono da parte della madre e poi anche del padre uomo buono con lei, un giocherellone ma abusante verso la madre, di maltrattamenti in tenera età, di droghe, eroina e di violenza. Dice di aver avuto tre mariti, con l’ultimo la sua storia è durata 8 anni ma veniva percossa continuamente, il suo era un rapporto conflittuale, aggiunge di aver avuto otto figli, di cui solo con tre ha mantenuto i contatti e tutti dati in affidamento. L’unica con la quale ha mantenuto i rapporti e che ama e odia con tutta se stessa, la odia perché ora l’ha delusa profondamente è Rosa che dice che non viene più a trovarla e che ora l’ha abbandonata. La scena si fa molto intensa e il suo romanzo sembra non finire mai, sono spinta ad interromperla ma resto ferma e in silenzio. Alla domanda “cosa è accaduto nella sua vita che l’ha portata al ricovero?" Elettra prende parola come a volermi togliere subito spazio e afferma “mi hanno tolta dalla strada, ma vivevo bene in strada con i miei amici, erano una grande famiglia, eppure insieme facevo uso di sostanze e di alcol, ero coinvolta continuamente in risse ma ci stavo bene, mi sono rafforzata, il ricovero l’ha voluto fortemente mia figlia preoccupata per me”. Alla fine del primo colloquio le chiedo cosa si aspetta da questi incontri? Risponde di non avere nessuna aspettativa, mi sento sminuita nel mio pormi in aiuto. Penso a tutti i momenti precedenti il colloquio, quando mi fermava nel corridoio ed esprimeva il desiderio bramoso di parlarmi, di raccontarsi; percepivo in modo anche vischioso la sua presenza/assenza, il suo bisogno di essere continuamente al centro delle mie attenzioni. Mi faceva pensare alla sensazione di trovarmi su una piccola barca in un mare in tempesta, quelle onde a volte basse e subito dopo alte, quella crescita spumeggiante delle acque mi impediva di mantenere la direzione, avevo il timore continuo di trovarmi alla deriva. Ancora più significativo era che durante la permanenza in struttura la paziente era continuamente nella mente di tutti gli operatori, si parlava di lei, della tempesta che creava, delle relazioni sempre turbolenti che instaurava con le altre degenti e anche quando lasciavo la struttura il pensiero andava alla prossima tempesta che poteva scatenare. Una persona che soffre di questo tipo di disturbo vive e fa vivere l’instabilità attraverso degli investimenti fortemente idealizzati a cui seguono immediatamente, in brevi spazi temporali, attacchi svalutanti in termini di tutto perfetto o tutto sporco. Ricordo anche i continui attacchi alla relazione con le altre degenti, le sue parole pungenti “sei molto acculturata, sai tante cose ma il tuo darti delle arie mi rende nervosa, sei insopportabilmente stupida”. Ciò dimostra quanto siano abili nell’accostare due appellativi, termini o descrizioni di significato antitetico nell’arco di un tempo brevissimo creando in chi ascolta movimenti rappresentazionali sempre cangianti. Anche il ricovero stesso è ora visto come "guscio" protettivo, ora come "catena" costrittiva, ciò sottolinea i movimenti scissionali dell’immagine di sé e/o dell’oggetto, di idealizzazione e svalutazione. L’entrare in relazione ha come finalità l’uso dell’altro il quale deve assoggettarsi ai suoi bisogni, l’altro è spinto ad agire e si sente in difficoltà a mantenersi calmo e stabile; ciò confronta nuovamente il paziente con una figura inconsistente come quasi sempre è stato il padre del borderline oppure fredda e instabile come si presenta la madre; le famiglie dei borderline presentano un quadro in cui non ci sono ruoli ben definiti, piuttosto è presente una sorta di approssimazione sfumata densa di eccessi e bruschi passaggi, dove la madre può passare da un forte eccesso di ira seguito da un avvicinamento dolcissimo verso il figlio, il padre non riesce ad assolvere la funzione di limite e assume comportamenti eccessivamente pazienti, iporeattivi. Di conseguenza sono impedite anche capacità riparative, tipiche della posizione depressiva, impedite dal fatto che le madri dei borderline fanno e disfanno gli scenari senza attendere le elaborazioni proprie e del figlio radicando la logica del tutto e subito (Petrini – Mandese, 2017). Un’altra caratteristica del borderline è l’impulsività, essi stessi hanno paura dei propri impulsi, di questa rabbia incontrollabile e intollerabile che inonda tutto e tutti. Appena hanno un impulso agiscono, per ottenere subito una qualche ricompensa e soddisfazione. Non conoscendo il "no", e non conoscendo limiti e confini tutto diventa ansia, costante irrequietezza, azione e movimento continuo. Questo costante muoversi garantisce l’instabilità dei limiti, l’impossibilità di creare memorie, lo scarso processo di rielaborazione, reinscrizione e conservazione delle immagini fa si che le narrazioni il più delle volte ridisegnino il passato quasi come se ci trovassimo davanti a dei racconti colorati emotivamente sempre diversi. I racconti di Elettra si presentavano costellati di scenari sempre diversi, ogni volta che raccontava il suo passato aggiungeva nuovi dettagli come se stesse recitando prima la parte della buona sammaritana poi la parte della giustiziera. Inevitabilmente il pensiero, la riflessione e l’elaborazione che necessitano di un investimento durevole su un contenuto non possono svilupparsi, così come l’Io nella sua funzione di confine. L’instabilità si ripercuote sulla definizione identitaria sempre incerta perché presa da continui opposti eccessivi, la reazione è quella di agire la rabbia per rivendicare la propria individualità. I momenti di forte rabbia e la perdita del controllo degli impulsi con effetti disastrosi sulle loro relazioni si alternano a momenti in cui chiedono protezione, appoggio e rassicurazioni palesando le loro fragilità. Riporto una sua affermazione avuta durante i primi colloqui mentre raccontava il rapporto con i suoi figli, con toni molto coloriti ma allo stesso tempo pieni di sgomento: “Vorrei trovarmi sola con i miei figli e che egoisticamente loro vivano per me, raccolti nella nostra solitudine, in vista eppure nascosti in un’immensità che non ci mostra, in un’indifferenza che ci fa sentire soli e perciò miti a noi stessi”. In questa instabilità di legame il borderline resta in equilibrio, finché riesce a creare e a credere di essere in situazioni di non legame nella convinzione auto-menzognera che solo così può avere il controllo dell’oggetto, evitare la sua perdita totale e il conseguente vissuto nostalgico che non riesce a reggere. Anche in questo caso ritorna l’immagine della tempesta che viene sempre cercata per evitare la calma piatta in cui non ci si sentirebbe persi. In questo modo si attacca e attacca per non legarsi. Un legame richiede una giusta dose di distanza e di esperienza di mancanza per far si che il pensiero con la sua attività rappresentazionale faccia essere presente l’altro anche se non c’è. Solo in questo modo possono crearsi tracce nella nostra memoria a cui rifarci ogni volta che sentiamo nostalgia dell’oggetto, in questo modo l’altro è sempre con noi, nel nostro mondo interno. Il borderline non riesce a reggere questo, ha dunque bisogno di continui movimenti di avvicinamento e distanziamento, una distanza di sicurezza dall’altro che garantisce la sua incolumità, il non sentire il dolore, la vergogna, la rabbia, la paura, la tristezza, i bisogni, l’affetto. Un altro elemento rappresentativo era il sentirsi continuamente vuota ciò che poi può farli precipitare, nei casi più gravi, assieme ad una forte impulsività, nel suicidio quando l’oggetto narcisistico fallisce nella sua funzione e si creano vissuti abbandonici angoscianti. Elettra riportava i segni di questo incolmabile vuoto sulle braccia, tagli che si era inflitta e che ora mostrava fieramente per impressionami. L’oggetto d’amore seppur instabile è percepito infatti come parte di sé, dunque irrinunciabile e perdere questa parte equivale a disintegrarsi o perdere la propria integrità, per questo la rabbia susseguita all’abbandono viene diretta verso la propria persona nel tentativo di tenere in vita tale relazione. Il loro vuoto evoca sempre un troppo pieno ingestibile a causa di una cronica incapacità a mettere i limiti, creare confini, legare e collegare. La mia mente era pervasa dalla sensazione di essere affascinata, coinvolta e sedotta da Elettra ma nell’arco di poco tempo, nello stesso incontro, mi sentivo annoiata perché quella stessa appariva troppo superficiale sfidante, belligerante, eppure non potevo fare a meno della sua presenza. Il suo sfidarmi continuamente mi faceva sentire come se stessi in mezzo ad un cielo pieno di tuoni e fulmini che si alternavano continuamente senza tregua eppure quel cielo affascinava, era fatalmente e insopportabilmente attraente. La caratteristica modalità relazionale manipolatoria di questo tipo di pazienti, sottesa dal meccanismo di difesa dell’identificazione proiettiva, rischia di portare fratture anche all’interno dei colloqui stessi. Ed è quello che è successo con Elettra che attraverso continui suoi agiti cercava di indurmi a spalleggiarla guardando cosa non le piacesse di un operatore attuando in questo modo dinamiche manipolative, con l’attribuzione di volta in volta del ruolo di ‘buono’ o ‘cattivo’ ai diversi operatori e degenti. Il mio intervento era quello di mostrarle attraverso uno spazio di riflessione la guerra che sempre tentava di attivare e nell’immagine alternata di madre cattiva e madre buona che continuamente voleva attribuirmi per indurmi ad accettare una relazione anaclitica. A volte, quando non corrispondevo i suoi bisogni imminenti di ascoltarla, accadeva che si posizionasse nel corridoio con il cappuccio della maglia in testa per ore e la sua presenza silenziosa ma urlante era più efficace di qualsiasi parola nel destare in me turbamento. Resistevo nel non agire per paura di perdere l’oggetto e ritrovarmi il vuoto. Cercavo di trattenere per poi tradurre in parole quegli agiti aggressivi accogliendo successivamente quel suo bisogno di essere continuamente vista ma ponendola in una condizione di attesa. Ciò che mi riservavo di fare era quello di parlare nel colloquio successivo, di cosa fosse successo, trovando significati e dando spazio ad associazione e simboli rispetto ad un pensiero traumatizzante. Alla domanda di descrivere la rabbia che aveva sentito una volta mi rispose: “ricordo un film “Inside out”, un cartone animato che parla delle emozioni, ricordo un pupazzetto di questo film, un omino rosso che sbotta, sono come quell’omino arrabbiato ma a che serve l’omino rosso, a niente”. Mi accorgevo che il suo discorso per quanto tentasse di creare immagini voleva riportare un cambiamento di direzione quasi come se volesse continuamente sabotare il mio spazio di riflessione imponendo il suo, mi sentivo come se fossi un palloncino che veniva sballottato dalle correnti e appena trovava una direzione subito la riperdeva. Questa instabilità è al servizio del non legame che il funzionamento borderline tende sempre di attivare, l’attesa è vissuta come perdita dell’oggetto anaclitico che diviene insopportabile e definitiva. Ci sono state volte in cui ho usato anche io nella relazione degli acting, ricordo una volta in cui mi sono dimenticata dell’appuntamento a causa di urgenze in reparto, facendole percepire l’assenza priva di significato come fa una madre discontinua che prima c’è con tutta se stessa e poi non c’è più, per lei fu come se non fossi mai esistita. Un’ulteriore riflessione anche a conferma del PPM (Processo Psicoanalitco Mutativo), il metodo di cui mi sono avvalsa per i miei interventi, è stata che nonostante io sapessi a cosa potessi andare incontro come la forte impulsività mi sono fatta travolgere dal funzionamento, questo a significare che il lavoro psicoterapeutico prevede una prima fase in cui ci si lascia saturare dal paziente, si regredisce per poi narrare, riscrivere la propria storia, costruire. La mia interpretazione iniziatica si è basata sul creare uno spazio potenziale alla Winnicott nel quale il paziente può giocare e lavorare sugli aspetti disgreganti della sua personalità. Pertanto esplicitare il mio controtransfert dinnanzi alla paziente nell’essermi sentita irritata ma allo stesso tempo scoraggiata e impotente è servito a favorire spazi di riflessioni e mentalizzazione, rispecchiamenti che hanno fatto vedere la guerra che si stava creando. Inoltre, l’aver espresso il bisogno di dare delle regole condivise, ha favorito la consistenza e prevedibilità necessaria per definirsi, per far sentire l’istanza paterna bonificata e far percepire la funzionalità di una stabilità che continuamente veniva meno. In questo caso la stabilità rassicura e permette processi di mentalizzazione ciò che in un funzionamento borderline è mancato ma che è necessario per permettere una trasformazione.


Alcune testimonianze raccolte ...


"Sono molto grata alla Dott.ssa Bruna Palmieri, perché per la sua professionalità, unitamente al gentile tratto umano che la contraddistingue, mi ha fatto sentire a mio agio. Credo che la terapia sia un cammino che si porta avanti insieme, con grande fatica ma con profonda consapevolezza di quelli che sono i propri limiti. Sono felice di aver camminato al suo fianco, passeggiando nei miei meandri. Ad oggi mi porto con me un grande senso di gratitudine per avermi fatto scoprire il piacere di volersi bene e fatto sentire ricca di me!"

"Ero in bilico, pensavo di cadere, di non farcela, di essere perennemente sui carboni ardenti, ora sento finalmente il terreno più stabile, vado avanti, cado ma mi faccio meno male. Grazie alla mia stanza di terapia, alla dottoressa, attraverso i suoi occhi ora riesco a guardarmi senza voltare lo sguardo, vedo la mia fragile forza. Mi fermo a guardare quella che sono e dico GRAZIE a me per essere riuscita ad intraprende il percorso con la dottoressa, profonda stima e riconoscimento per lei."

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